Il fatto
Nel lontano 2010 un provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM provvedimento del 30 settembre 2010) ha dichiarato pratica commerciale scorretta e sanzionato con sanzione pecuniaria amministrativa la comunicazione commerciale su siti internet, stampa periodica, confezione del prodotto, spot televisivi, opuscoli informativi, cartelli esposti all’interno delle farmacie di un integratore alimentare con claim come ‘destoccare i grassi’, “combattere gli zuccheri alimentari’, ‘‘eliminare l’acqua in eccesso’ ed ‘eliminare le tossine’ e quindi di avere un “rivoluzionario” e “innovativo” effetto snellente.
Il procedimento
L’azienda titolare dell’integratore alimentare ha impugnato il provvedimento dell’AGCM innanzi al Tar Lazio. A fronte della decisione sfavorevole del Tar Lazio (sentenza n. 4630 del 2019) l’azienda ha proposto appello al Consiglio di Stato. Il fatto oggetto della decisione del Consiglio di Stato è datato ma le questioni affrontate nella decisione sono interessanti.
Motivi di impugnazione
L’azienda ha sollevato la questione della competenza dell’AGCM ad occuparsi della comunicazione commerciale degli integratori alimentari. Altra questione trattata è cosa deve intendersi per “ingannevolezza” della comunicazione commerciale e come una comunicazione ingannevole integri i presupposti richiesti per la contestazione di una pratica commerciale scorretta.
Il riparto delle competenze tra l’AGCM ed il Ministero della salute
Gli integratori alimentari sono alimenti per i quali è dettata una disciplina ad hoc contenuta nel D.Lgs. 169/2004 (attuazione della Direttiva 2002/46/CE). In base al D.Lgs. 169/2004 l’autorità competente per gli adempimenti che riguardano gli integratori alimentari è il Ministero della salute. Secondo l’azienda ricorrente, l’AGCM non avrebbe potuto contestare una pratica commerciale scorretta di un integratore alimentare regolarmente sul mercato.
ll Consiglio di Stato affronta il tema del riparto di competenze tra l’AGCM ed il Ministero della Salute ripercorrendo l’ampio dibattito giurisprudenziale sull’interpretazione del rapporto di specialità tra la disciplina generale sulla repressione delle pratiche commerciali scorrette e quelle discipline di settore che ricomprendono disposizioni per la tutela del consumatore negli ambiti economici rispettivamente regolati.
I giudici per decidere la questione della competenza fanno riferimento ai principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza 13 settembre 2018 secondo la quale “- le norme settoriali prevalgono qualora disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali che siano in contrasto con le norme generali del codice del consumo; – per «contrasto» deve intendersi, non la mera difformità, bensì un rapporto di incompatibilità che non permetta la coesistenza di entrambe le realtà normative.”
Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha dichiarato la competenza dell’AGCM spiegando che “la specifica disciplina contenuta nel decreto legislativo 21 maggio 2004, n. 169, di attuazione della direttiva 2002/46/CE, relativa agli integratori alimentari, non contiene alcuna fattispecie che disciplini aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, e neppure prevede obblighi di trasparenza e regole di comportamento riguardanti l’intero “spettro” delle condotte sanzionate dal codice del consumo. Non sono quindi configurabili sovrapposizioni di tutele né conflitti di competenze, in ragione della diversità degli interessi pubblici tutelati: il controllo svolto dal Ministero della Salute sull’etichettatura del prodotto prima dell’immissione in commercio persegue la specifica finalità di verificare la sicurezza e l’assenza di pericolosità per la salute umana; l’Autorità valuta invece la capacità decettiva del messaggio pubblicitario allo scopo di proteggere il consumatore”
Pratiche commerciali scorrette
Il Consiglio di Stato ricorda che le pratiche commerciali scorrette sono disciplinate dagli articoli da 20 a 26 del Codice del Consumo ed è interessante la ricognizione del processo logico da seguire per individuare se un comportamento di un operatore può esser ricondotto ad una pratica commerciale scorretta.
In primo luogo si deve verificare se il comportamento rientri in taluna delle condotte esemplificate, le cosiddette “liste nere” . Il solo fatto che il comportamento rientri nelle fattispecie richiamate comporta una qualificazione della pratica come scorretta.
In secondo luogo si deve valutare se una pratica può considerarsi ingannevole o aggressiva secondo i criteri indicati dagli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo.
In ogni caso è una pratica scorretta ogni comportamento che, come stabilisce l’art. 20 del Codice del Consumo è: 1) «contrario alla diligenza professionale»; 2) «falso o idoneo a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio”.
Pratiche commerciali ingannevoli
Nel caso trattato dal Consiglio di Stato si è valutata la sussistenza di una pratica commerciale ingannevole.
I giudici hanno confermato la contestazione fatta dall’AGCM ritenendo che l’operatore commerciale non avesse dimostrato la fondatezza delle caratteristiche ed effetti vantati per l’integratore alimentare (‘con un solo prodotto snellisco’, ‘rivoluzione snellente’ , ‘aiuta a lottare contro/sconfiggere/dare filo da torcere i nemici della linea’, ‘combattere tutti i nemici della snellezza: zucchero, grassi, ritenzione idrica e tossine’) e che dunque i vanti non fossero veritieri .
Ha inoltre dato rilevanza anche all’omissività della comunicazione commerciale ritenendo che all’enfatizzazione dei vanti prestazionali del prodotto non corrispondesse una analoga evidenza dei limiti di efficacia dello stesso.
Mancanza di veridicità e omissioni che quindi ingannevolmente “lasciavano intendere che il prodotto reclamizzato potesse costituire una valida alternativa alla dieta, laddove si trattava invece di un mero integratore alimentare a base di piante”.
Il bene giuridico tutelato dalle disposizioni sulle pratiche commerciali scorrette è la libertà di scelta del consumatore e dunque è giusto contestare e sanzionare chi rappresenti un prodotto attraverso la comunicazione commerciale di qualunque tipo in modo tale da indurre un consumatore ad acquisti non consapevoli e inadatti a rispondere effettivamente alle sue esigenze.